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La via della seta, quattro tappe in Uzbekistan

di Maurizio Romanato

Giornalista


Un viaggio ricco di suggestioni e di curiosità, di arte e cultura, un mix di vintage e corsa alla modernità. Ecco il tour dell’Uzbekistan, limitato a ripercorrere parte della mitica Via della seta che univa, mediante i commerci, due mondi diversi, l’Occidente e la Cina. Una terra sorprendente che ha visto nei secoli le conquiste di Alessandro Magno, il quale superò l’Oxus, ora Amu Darya, e ampliò a quelle zone il suo dominio effimero ma esportatore di cultura con l’ellenismo, poi accolse i Persiani, gli arabi, i mongoli, i turchi, l’impero di Tamerlano, e ancora i Khanati, gli zar della Russia e i comunisti sovietici, fino all’indipendenza raggiunta 30 anni fa e motivo di orgoglio per un popolo fiero e ospitale.

L’Uzbekistan non è solo la Via della seta, ma nella veloce traversata ovest-est del Paese, dall’aeroporto di Urgench a quello di Tashkent, si tralasciano forzatamente il lago d’Aral, vittima di un disastro ecologico che purtroppo sembra irreversibile, o la fertile valle del Fergana dove le vette appaiono nella loro maestosità, incuneata com’è tra Tagikistan e Kirghizistan. Eppure lungo lo storico percorso si incontrano città e persone, tradizioni e stili stratificati nei secoli grazie ai quali si ha l’idea del mondo e della sua evoluzione come di una sovrapposizione continua di culture e di scambi.

All’ovest del Paese si staglia la possente città fortificata di Khiva. Le suggestioni sono quelle delle storie delle Mille e una notte, cifra che significa un numero infinito, oppure si riferiscono al viaggio di Marco Polo che affrontò con il padre e lo zio un percorso faticoso ma con la certezza che da quei territori potevano giungere sete e tessuti potendo così incrementare le occasioni di lucrosi commerci. Khiva è un salto nel tempo, dove l’antico prevale nei colori dei mattoni crudi o cotti che costituiscono le imponenti mura o le case nel dedalo di viuzze all’interno. Sono in corso grandi lavori di sistemazione delle pavimentazioni in modo da preservare il gioiello di Itchan Kala racchiuso dai baluardi in argilla. Il centro ha una evidente omogeneità architettonica; è suddiviso da due strade principali perpendicolari che seguono i punti cardinali e vanta quattro porte d’accesso. Strada dopo strada, angolo dopo angolo, compaiono fortezze e moschee, complessi e palazzi dalla decorazioni raffinate in maiolica, frutto di un sapiente artigianato e dalle caratteristiche che, al primo impatto, sembrano analoghe ma hanno invece significati differenti. Poi le torri, che servivano alte affinché i viaggatori le potessero scorgere da lontano e riconoscessero la giusta direzione di viaggio, e successivamente sono diventate minareti. E l’originale moschea di Djuma con 216 colonne di legno istoriato.

Se Khiva, crocevia del mercato degli schiavi, una pratica rimasta attiva fino al tempo dell’arrivo dei russi, rappresenta l’esempio di città fortificata all’attuale confine con il Turkmenistan, è proprio seguendo quella frontiera tracciata lungo il corso dell’Amu Darya che si affronta la parte meno comoda del viaggio, a meno che non si sia fortunati di poter prendere il treno stagionale che in meno di quattro ore porta a Bukhara. Altrimenti non resta che raddoppiare il tempo per attraversare in pullman 400 chilometri di deserto su infrastrutture stradali inadatte a un traffico di camion e auto tanto intenso. Un viaggio che assume connotazioni quasi avventurose in attesa che sia finalmente completata l’autostrada in quadroni di cemento, ora in esercizio per un tratto. Spariscono, chilometro dopo chilometro, le coltivazioni del bianco fiore del cotone per lasciare spazio a un paesaggio tinto d’ocra punteggiato da bassi arbusti. Ecco il deserto, lungo il quale, per oltre un centinaio di chilometri, la strada asfaltata dai sovietici è ridotta a un susseguirsi di buche che rendono ardua la marcia, impossibile dal tramonto all’alba. D’altra parte sono zone nelle quali le temperature sono estreme e variano dai + 45 in estate ai -20 del pieno inverno. Nel tratto, salvo rari casi, anche i servizi lasciano a desiderare.

All’avvicinarsi a Bukhara, però, città santissima, il cui nome significa “monastero”, fondata nel XIII secolo da un principe persiano, torna la sensazione della vita, dei colori e della presenza culturale, non soltanto per l’esistenza di oltre 200 edifici di valore storico e architettonico: palazzi, madrasse, moschee. Il centro è nel complesso dell’Ark, sede dell’emiro del Khanato locale, con tanto di caravanserraglio, harem, prigione, magazzini, collezioni di oggetti preziosi e di reperti che cercano di ricostruire la vita e le consuetudini di quei crudeli governanti e del popolo. D’altra parte il conquistatore mongolo Gengis Khan alla metà del XIII secolo rimase tanto impressionato dalla magnificenza del minareto di Bukhara, simbolo della città, che ordinò di non raderlo al suolo com’era solito fare dopo le sue conquiste. Cupole turchesi e facciate dalle decorazioni dove compaiono versetti del Corano e scritte inneggianti ad Allah disegnano il paesaggio urbano, così come è caratteristica la piazza alberata con piscina che serviva da serbatoio idrico. L’ottocentesco Charminar con le quattro torri a cupole anch’esse turchesi ha decorazioni richiamanti le quattro grandi religioni islamica, cristiana, ebraica e buddista, segno delle loro radici comuni. Un segnale di integrazione, tolleranza e pace. Ad Afshana, nei pressi di Bukhara, nacque nel 980 Avicenna, uno dei più grandi scienziati medievali, medico, matematico, filosofo, logico e fisico ebreo persiano, citato tra i grandi della storia da Dante Alighieri. Parlare di Bukhara significa fare riferimento ai preziosi tappeti che, insieme con l’arte della seta, dell’intaglio, della tessitura e della carta costituiscono peculiarità artistiche uzbeke riconosciute in tutto il mondo. Il cotone per l’Uzbekistan è stato ed è una delizia per la ricchezza che produce con le esportazioni mondiali, ma anche una croce per l’ambiente. Ai tempi del comunismo, la specializzazione delle regioni aveva indotto le autorità di Mosca a rendere l’Uzbekistan una monocoltura: distese di cotone che richiedono abbondante irrigazione, tanto da costringere a ingenti i prelievi da Amu Darya e Syr Darya (l’ex Iaxarte dei greci, l’altro grande fiume a nord) tramite un sistema di canali. A ragione del cambiamento climatico, i conferimenti nel lago d’Aral sono calati fino a ridurne drasticamente le dimensioni e distruggere la fiorente pesca alzando polveri salate e impoverenti i terreni per chilometri e chilometri.

Da Bukhara giunge un altro segno della modernità del nuovo Uzbekistan, con il treno ad alta velocità che collega la città con Samarcanda e la capitale Tashkent. Samarcanda si raggiunge comodamente in un paio d’ore ed è una miscellanea tra antico e moderno. Tra i molti punti d’interesse non possono mancare le visite a quelli più preziosi, il mausoleo di Tamerlano e la piazza del Registan. Quest’ultima, imponente sulla quale si affacciano tre madrasse, centro di una metropoli di mezzo milione di abitanti, è stata recentemente illuminata a led e anche questa innovazione contribuisce a illustrarne il passato leggendario, che impressionò pure Alessandro Magno, le sue trasformazioni e lo splendore raggiunto ai tempi di Tamerlano e del suo successore Ulugh Beg a cavallo tra XIV e XV secolo. Tamerlano, o meglio Amir Timur, la volle come capitale del suo impero che si estese in breve tempo dall’Asia minore sino all’India e ai confini con la Cina. L’imperatore è la gloria nazionale uzbeka. Nato nella vicina Shakhrisabz, incutè grandi timori nelle popolazioni che vedevano avvicinarsi le sue truppe, irresistibili per la ferocia verso chi si opponeva loro. Egli morì a 67 anni mentre si apprestava ad attaccare la Cina. Sepolto a Samarcanda in quello che oggi è un mausoleo sfarzoso decorato in oro, lasciò un’iscrizione: “Chiunque disturberà la mia quiete scatenerà un invasore più terribile di me”. Nel 1941 Stalin affidò all’archeologo e antropologo Gerasimov il compito di rintracciare la tomba dell’imperatore, di esumare il corpo e di esaminarlo per stabilire se si trattava proprio del sovrano. Si confermò che Tamerlano era alto un metro e 70, di struttura robusta, ed era stato vittima di un incidente o una ferita che lo avevano costretto a un’evidente zoppia. L’apertura della tomba avvenne proprio il 21 giugno 1941 quando Hitler attaccò l’Unione Sovietica e la riscossa dell’Armata Rossa iniziò nel novembre dell’anno successivo quando lo scheletro fu riportato nel mausoleo di Samarcanda. Di Samarcanda, scelta come capitale nel 1370, Amir Timur fece un centro di cultura e di arte, che fu incrementato dal discendente astronomo Ulugh Beg (a lui si deve il sestante) il quale diede la forma attuale alla piazza del Registan, uno dei luoghi più suggestivi dell’architettura islamica, ex spazio delle esecuzioni capitali, ora spianata e punto d’incontro nel segno dell’arte. Di quella città antica rimangono alcune parti, significative, altre sono state trasformate nel tempo in un miscuglio di quartieri industriali o residenziali e di isolati antichi.

La modernità con le sue varie sfaccettature, si nota a Tashkent, letteralmente “città di pietra”, la capitale, tre milioni di abitanti, rasa praticamente al suolo nel terribile terremoto del 1966 e ricostruita in stile sovietico. Con l’indipendenza, Tashkent si è rinnovata, ha valorizzato quanto rimasto dell’architettura islamica, conserva in una moschea una preziosissima copia del Corano scritta su pelli di daino oltre 1300 anni or sono, ha mantenuto alcuni edifici sovietici, i più significativi, ma soprattutto è diventata città alberata dai larghi viali trafficati e centro amministrativo nazionale, oltrechè industriale e commerciale. E’ appieno il segno della crescita e della modernizzazione, situata in una sorta di strozzatura del territorio uzbeko, serrata com’è tra Kazakistan e Tagikistan. Non mancano le statue di Tamerlano, simbolo della potenza di un tempo, è sparita invece quella di Lenin. L’immenso mercato coperto è un unicum, dove i venditori sono molti, offrono e propongono, ma non petulanti o insistenti. Lì il commercio e la gastronomia si danno la mano. Il pane Tandyr decorato a seconda delle regioni va apprezzato come il piatto nazionale Plov, riso, carne, uova e le carote gialle. E poi i bianchi formaggi che fanno da contraltare ai colori delle verdure e della frutta. In un originale esempio di street food.

Passato e presente insieme, con la voglia di progredire e di investire per migliorare l’offerta dell’industria dell’ospitalità. Adesso l’Uzbekistan fa da sé, ponendosi al centro non solo geografico dell’area dell’Asia centrale, diventando una delle più sicure destinazioni turistiche, in un contesto di tolleranza religiosa, di equidistanza politica e di accoglienza, nonostante la vicinanza del confinante e martoriato Afghanistan. In fin dei conti, grazie ai collegamenti aerei, come ha scritto e cantato Roberto Vecchioni, «Non è poi così lontana Samarcanda….».




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